Viaggio in uno degli arcipelaghi più remoti e selvaggi del Venezuela dove, tra la natura rigogliosa e la popolazione ospitale, incombe la minaccia costante dei pirati
Dopo tre giorni di cantiere, dal 16 al 20 giugno, e una spesa abbondante, siamo pronti a mollare gli ormeggi di Aluka, il nostro Stadship 54 AC, e lasciare Grenada alla volta dell’arcipelago venezuelano di Los Roques.
Non è la distanza o il meteo a intimorirci, ma l’alone di mistero che circonda questo territorio. Ho monitorato la situazione per oltre due anni e sia per la pandemia, sia per le leggende, pochi navigatori si sono fermati in questo piccolo paradiso perduto. Il motivo è uno: pirati. Un termine forse troppo generico che descrive disperati del mare in un Paese portato allo stremo, dove la violenza dilaga. Sono già stato in quella terra per un anno a seguire il refitting di un 20 metri e so come muovermi, ma la paura resta. Proprio quindici giorni prima di partire una barca francese è stata assalita vicino all’isola Margarita e scortata pistola alla tempia a riva, dove è stata saccheggiata, lasciando i due giovani skipper senza documenti e cibo. Il governo venezuelano ha disposto vari guardiacostas nelle isole a 100 miglia dalla costa, ma hanno mezzi limitati e spesso sono corrotti o in combutta con gli aggressori, che altro non sono che pescatori, ex militari o narcos.
A differenza di molti velisti che risalgono in Martinica per puntare diretti sulle Antille Olandesi, scelgo una rotta diretta, con il vento in poppa piena e varie isole sino all’arcipelago.
21 giugno. Alle ore 9 si salpa, ci aspettano 24-30 ore di navigazione per una sosta tattica a la Blanquilla. Il meteo dice nuvolo, ma vento 9-16 nodi da Est.
Usciamo da Prickly Bay a motore e dopo un’oretta alziamo la randa e anche un vento da Nord con onda di un paio di metri. Un traverso inaspettato e un po’ duro come inizio. Il vento sale a 25 nodi, diamo una mano, ma la borosa si incattivisce con il bozzello dei lazy jack e si incide un po’.
Proseguiamo con la randa un po’ grassa. Finalmente arriva il Nord Est sui 16-22 nodi, tangoniamo il fiocco, ma l’onda al traverso non molla e proseguiamo al lasco, shakerati. Per il tardo pomeriggio il vento cala, si apre il gennaker e la barca viaggia bene. La notte decidiamo di tenerlo, cambiando bordo. Ais spento, radar attivo, luci spente e strumenti coperti se serve. La luna è calante, sorge tardi e l’oceano ci nasconde.
La mattina ci sorprende con un “culo de pollo”, espressione centroamericana per definire un intenso temporale. Un muro grigio che avanza, riceviamo un bel colpo di vento sui 20-25 nodi e si vola per un’oretta a 12-14 nodi. Poi con il sole e un venticello sui 10 nodi e decido di buttare la lenza e pesco un bel barracuda da 50 centimetri. Arriviamo a Blanquilla alle 9.30, 24 ore dopo alla media di 7.5 nodi.
22 giugno. L’isola di Blanquilla è bassa e bianca per chi proviene da Ovest. Sulla carta ricorda la forma di una conchiglia e vengono consigliati due ancoraggi, quello delle Palme e la baia dell’Americano con tempo ottimo. Questa baia ha anche un arco naturale e viene così chiamata perché un americano, ma pare fosse un tedesco, dopo la seconda guerra Mondiale decise di costruire una casa usando asini per trasportare il materiale; la causa non fu terminata ma gli asini sono rimasti.
Nella breve escursione vediamo molti animali e tanti insetti, il cui ronzio è pari al traffico della circonvallazione di Milano. Comunque ci si sente come Indiana Jones, il caldo soffoca e le spine dei cactus passano le suole delle Crocs.
Approcciamo da Sud e dopo un miglio veniamo contattati dai guardiacostas in inglese. Rispondo che possono parlare in spagnolo, sono italiano e subito il tono si ammorbidisce con un “hermano”. Ci invitano a presentarci per un controllo alla base, ancorando davanti alla spiaggia lunga. Nei vecchi portolani disponibili avevo letto di non andare oltre i 5 metri perché è pieno di teste di corallo. Ancoriamo su 6 metri. Dopo 5 minuti i 3 guardiani sono pronti a salire a bordo in tenuta antiterrorismo.
Il sergente Rodriguez, chiede passaporto e documenti della barca e zarpe (documento di uscita da Grenada). Passa poi in rassegna i razzi, i giubbetti e gli estintori.
La legge federale prevede che possiamo restare per 72 ore per un motivo tecnico o di riposo. Sono molto gentili e prima di andare mi chiedono se ho da bere qualcosa per il commilitone più giovane, oggi è il suo compleanno. Domando quanti anni e rispondono 21. Li omaggio di 3 birre e una bottiglia di rum. Mi invitano a restare in quella baia, sono sempre sul 16 e in 5 minuti mi possono dare assistenza in caso di attacco. Il posto è bello e ridossato, ci fermiamo. Nel pomeriggio visito la base. Una chiesetta all’aperto con la cesta delle offerte, un pollaio, due generatori e 3 casermette.
23 giugno. Alle 15 partiamo. Uso un grib vecchio di 2 giorni per il routage, perché predict wind non scarica, ma riesco a scrivere una mail ad Arnaud dello staff il quale mi inoltra 48 ore di previsioni, che prevedono poche differenze. Ci sarà un rinforzino sull’arrivo sopra i 25 nodi.
Partiamo puntando l’isola Margherita, vero covo di delinquenti, e dopo 3 ore strambiamo con rotta sul Roque, passando a Nord di Orchilla, isola militare a cui bisogna tenersi distanti per evitare i bassi fondali. Arrivo a Los Roque alle 7 di mattina, con le prime luci e un bel mare arrabbiato e 30-35 nodi. Avviso via telefono satellitare mio contatto Alejandro. L’ancoraggio è scomodo, il fondale passa da 12 metri a 2 e tutti sono quindi ancorati lontani. All’ancora riconosco un Bertram 51 di colore azzurro che avevo assistito nel 2007 a Puerto al Cruz, l’Hurricane. Il mondo è piccolo. Dopo 30 minuti arriva a bordo la sanità e ci controllano i certificati Covid, timbri e domande, poi liberi di sbarcare.
Alle 10 Alejandro ci aspetta sul pontile con una sim venezuelana e 10 giga. Ci dice che in un’oretta faremo tutto. A differenza di quello che si dice e si legge, ci sono 4 supermercati riforniti ogni 2-3 settimane, ristoranti, posade (rustici di lusso con ristorant) e l’aeroporto lavora più di Malpensa: conto circa 20 voli in 2 orette. In sequenza Capitano del porto, 60 dollari, Guardiacosta 120 dollari, agenzia del parco 250 dollari per 10 giorni di cui 3 gratuiti, Immigrazione e dogana 180 dollari e 30 dollari per timbro sul passaporto. A parte la tassa del Capitano e del Parco che rilasciano regolare ricevuta, il resto sono tangenti per sopravvivere considerando che i salari medi sono di 16-20 dollari. Mi evito anche la lunga ispezione doganale, che prevede 3 doganieri a bordo che aprono ogni gavone e prendono foto del contenuto, nonché un minuzioso elenco. Molti temono che i doganieri passino informazioni ai malviventi, anche perché le foto le fanno con i loro cellulari personali. Sono inoltre vietati i fucili da sub, considerati un’arma e da noi nascosti nelle pieghe della randa.
I prezzi di accesso al parco cambiano in funzione di non si capisce cosa, per cui ci sono 12 metri che hanno pagato 900 dollari e altri 150 dollari. Alejandro ci offre un cevice e una scottata di tonno. A Los Roques costa tutto 3-4 volte il normale e nessuno si muove gratis. Qui servono dai 2 ai 3 mila dollari al mese per vivere bene e chi ha uno stipendio di 16-20 dollari vive solo di tangenti.
24 sera e 25 giugno. Madrisky e Cayo Pirata sono due isolette unite da un istmo di sabbia, sulla prima si trova un ridosso dai venti prevalenti su una lastra di sabbia con 4 metri di profondità che si estende per oltre 300 metri dalla spiaggia. Il fondale è a step:12, 7, 4, 3 metri con circa un metro di marea. Vediamo che anche un catamarano, è bello distante e non mi fido ad andare oltre, il forward scan mi presenta un gradino a circa 30 metri. La mattina seguente un pescatore ci dirà che abbiamo preso il posto migliore, infatti il catamarano austriaco si è arenato.
La spiaggia è di sabbia fine, i pellicani si tuffano con agilità mentre arrivano i vacanzieri da week end. Sono i benestanti di Caracas, che in jet privato vengono a dormire nelle posadei. Appena sceso vengo fermato da un signore di Bari che chiede qualche info sulla barca e sul viaggio.
Il sole acceca, dunque con cappello e occhiali polarizzati seguo un sentiero fino al villaggio dei pescatori: lo scenario iniziale è quello di un catamarano spiaggiato e depredato, monito per tutti i navigatori. Le case sono delle baracche realizzate con tavole di legno con dimensioni e colori diversi. È curioso come i “giardini” davanti alle case siano rastrellati e adornati di conchiglie, ma anche pezzi di relitti. Un boma sorregge perfettamente una pergola, un osteriggio funge da finestra. Passeggiamo tra gatti e bambini, nelle case le donne chiacchierano o cucinano mentre gli uomini riparano le barche o pescano.
Fuori dal villaggio veniamo fermati da Jefferson un ragazzo che ha voglia di parlare e chiede di dove siamo. Ci racconta del nonno di Benevento e che dopo la pandemia che lo ha bloccato qui per 2 anni ha deciso di restarci. Trasmette molta energia, perché è entusiasta del posto, ci spiega l’origine dell’arcipelago e che un archeologo polacco ha scoperto i resti degli amerindi.
A guastare la festa ci pensa l’arrivo di un tropical storm che passerà a Nord delle isole. Erano 18 anni che non si verificava una perturbazione così bassa.
26 giugno. La gastroenterite ci mette ko. Si decide comunque di andare a cavallo dei Cayo con attenzione ai reef, la navigazione è solo a vista e con l’ausilio delle immagine satellitari.
Il problema è quando ci dobbiamo spostare per andare a Cayo Franciscky perché abbiamo il sole in spalle e l’iPad non prende la posizione, quindi attiviamo il pc con le cartine. Si passa da 20 a 2 metri senza accorgersene e senza percepire la profondità perché l’acqua è super trasparente. Ci ancoriamo a cala Franciscky dopo lo slalom tra bassifondi in attesa della tropical storm.
27 giugno. Il cielo è plumbeo, nuvole basse e grigie di ogni forma si confondono con l’orizzonte, dobbiamo aspettare fino alle 16 per una pausa temporalesca. Decido di andare a vedere i relitti della laguna, sono due barche a vela, una tipo Endurance 35, in acciaio, si chiama Elena di Göteborg, ha una coperta di simil teak in sughero recente, non sembra spiaggiata lì da più di 5 anni e mentre studio il relitto, vengo chiamato da un uomo sulla spiaggia.
Il pescatore mi dice che sono il benvenuto e vuole presentarmi la famiglia. Chiede subito se sono della barca in alluminio rossa. Annuisco. Ha voglia di parlare e mi inizia a dire di quando 20 anni fa era pieno di barche, di catamarani, poi la pirateria e la laguna si è chiusa con una barra di sabbia.
Mi invita a cena mostrandomi quello che ha pescato oggi, ma declino l’invito. Poi mi chiede di dove sono e dopo un secondo esordisce con un “Minchia! Io sono stato in Italia, ho lavorato a Milano” e in perfetto accento meneghino mi parla del lago di Como, di Inter-Milan e del Gran Premio di Monza. Sai ero di base a Lodi, conclude. Sorrido e gli dico che abito a 20 chilometri. A questo punto dirgli di no è difficile, ma resisto promettendogli che passerò dopodomani.
Lui non sa della tempesta, la sua casa è senza porte e finestre. Avrà 50 anni circa, diverse rughe sulla faccia e i caratteristici capelli neri che sembrano tinti.
Il Venezuela e i suoi contrasti. Si vive alla giornata, magari si emigra, ma poi si rientra qui perché la vita va vissuta con calma, senza ammazzarsi di lavoro. Possedendo poco si ha poco da perdere o da farsi rubare. Le gioie più semplice sono il sole, gli amici e una bella mangiata accompagnata da buona musica.
28 giugno. Domani arriverà la tropical storm Bonnie, di grado 2, valore al 70 per cento di un uragano di prima categoria. Rispetto alle previsioni passa sotto all’arcipelago. Poco cambia il vento sarà sempre da Nord Est in rotazione a Sud Est, con molta pioggia, cielo coperto e vento a 30-45 nodi. Avendone già presi 60 sappiamo che non avremo problemi. Il vantaggio è che arriverà con le prime luci e finirà per le 13.
Alle 17 siamo a bordo e arriva il nostro dirimpettaio dal suo Beneteau 510: “Non ho motore, ho solo un’ancora, potrei arretrare e venirvi addosso”. Siamo distanti 20 metri e disallineati, ma si sa, le barche fanno evoluzioni da ballerine. Apprezzo molto la sua onestà, magari non il suo tempismo. Gli dico comunque di tenere il gommone in acqua, ha un 15 hp sufficiente a deviare il suo scarroccio e se avrà bisogno andrò con il mio.
Come ciliegina sulla torta arriva anche un bel Trawler di 20 metri e si piazza a fianco con due ancore Fortress di alluminio su cima. Ora siamo tutti alla ruota, perché dovrebbe scegliere un sistema di ancoraggio diverso? È semplice, cima in dyenema e ancora sono più facili da districare dai coralli rispetto la catena: ma qui ci stiamo preparando a un vento in rotazione e infatti di notte dovrà allentarne una.
Smontiamo una parte del bimini, mettiamo i parabordi, allunghiamo il calumo di 20 metri, cima di ritenuta sulla catena, decido di non insalamare il lazy bag della randa e alziamo il dinghy privo del tappo di drenaggio. Timone al centro. Motore caldo, check a gasolio e batterie cariche. La cena è allietata dalla focaccia cotta con il fornetto: un acquisto per ottimizzare i consumi di gas. In pratica è una pentola in alluminio sulla quale ho montato un termometro e un vetrino dove controllare la lievitazione di pane, focacce e torte.
29 giungo. Alle 2 del mattino arriva il primo scroscio, forte e ruomoroso. Dalla pilot guardo i movimenti della barca e dei vicini. Tutto regolare. Stranamente il dirimpettaio ha le luci spente, quando fino a ieri aveva il pozzetto illuminato a giorno. Sull’albero non ha nulla perché le fregate gli avevano distrutto la stazione vento, antenna del Vhf e luce di fonda.
Alle 6 la pioggia finisce e inizia il balletto del vento da Nord Est e poi Est, ma raramente passa i 35 nodi, nessuna onda disturba la laguna e la temperatura è sui 27 gradi. C’è umido e si sta bene in barca, ma apriamo gli osteriggi in modo da creare un circolo d’aria. Per le ore 14 c’è il sole, il vento è stabile da Sud Est, il Trawler è un po’ vicino, ma a bordo l’equipaggio è attento.
30 giugno. Ci spostiamo a Crasky passando da Sud e nel tragitto peschiamo un dentice coda gialla di 40 centimetri. La giornata è ventosa sui 25 nodi e il cielo è pulito. I colori dell’acqua sono di infiniti sfumature di azzurro e seguiamo le zone scure con un occhio attento allo scandaglio. Ancoriamo su 5 metri davanti al ristorante di Davie, in realtà casa sua. Lui viene ad accoglierci con la lancia, famiglia e figlio. Ci ritira la spazzatura. Dopo qualche ora scendiamo a terra accolti da un cane loco, ci sono 6 case dette ranchos. Poco più avanti un ristorante, adesso chiuso, mi incuriosisce; le amache appese alla pergola, un color blu acceso, la sabbia rastrellata ed ecco apparire Eduardo, 56 anni, roqueno doc, che subito ci chiede di noi e ci racconta la sua vita. La sua casa è pulita, con un piccolo giardino di cactus.
Proseguiamo fino a quello che crediamo essere un ristorante, ma in realtà è solo la casa di Olivia. A spiegarcelo è Juan, un bambino di 7 anni, l’unico del villaggio. Gli adulti sono indaffarati a riparare una barca e la sera è l’ideale per le temperature miti. La casa è semplice ed elegante, come le altre, costruita con materiale riciclato, ma qui c’è dello stile. Alcuni mobili sono datati, le amache danzano al vento e dalle finestre si intravedono le zanzariere. Appare Olivia in costume, ha 62 anni e un fisico da soubrette. Ci racconta che è li da 20 anni, ha addobbato la casa man mano e ospita gli amici per 2-3 settimane in 5 stanze. La casa è ordinata e pulita. Lei ha fatto un cambio di vita rinunciando a tutto e gestendo questo rancho, qui vive con poco. Internet non esiste e poco dopo si spegne il generatore (le spazzole del motore elettrico non si trovano).
1 luglio. Decidiamo di fare con Davie un giro nella laguna interna. La zona è protetta dall’Isla Longa e non accessibile a una barca a vela. Facciamo prima un giro tra le mangrovie dove nidificano pellicani e sule e quindi ci fermiamo su un bassofondo che lui definisce il cielo del mare, per la presenza di stelle marine.
Ci spostiamo poi al Palafito, vecchia casa da pesca per le aragoste, ora in disuso, costruita su un letto di conchiglie. Poi andiamo su una lingua di roccia e sabbia dove ci sono nell’erba grassa diverse uova e uccellini appena nati; tra gli scogli molti granchi che sfrecciano nelle tane al nostro passaggio. Infine bagno nel reef Nord di Crasky pieno di corallo vivo, pesci luna, cernie, pesci trombetta, dentici e tanti pesci pappagallo.
La giornata ha avuto anche il suo pizzico di suspance quando al momento di ripartire il motore non andava. Davie armeggia un po’ sulla batteria e sui cablaggi, i cavi sono spelati, ossidati e inseriti sul morsetto e stretti attorno allo stesso a mano. Lui insiste e allora io mi faccio partecipe e cerchiamo di capire. Il trim del motore funzione bene e gli dico di controllare la chiave che forse non arranca. Davie insiste sulla batteria, prende un coltello e taglia 10 centimetri di guaina dai cavi e li pulisce uno a uno. Prova e riprova alla fine il motore parte. Alla sera poi mi dirà che avevo ragione, era il mandrino della chiave ossidato.
Davie e la moglie Ivana ci aspettano per cena alle 8, non hanno un rancho o un ristorante, ma cucinano il fresco tramite passaparola. Sotto la tettoia in eternit sostenuta da un boma e un albero il tavolo in plastica bianca ci aspetta con le aragoste, cevice e carpaccio di caracolla, carpaccio di dentice e polpette fritte di pesce e di conchiglia. Tutto è buono, l’importante è che ci siamo portati il bere dalla barca, in pratica stile Caraibi. Il prezzo è contenuto, ma lascio una mancia come contributo per il nuovo mandrino della chiave.
2 luglio. La burocrazia crea problemi. Siamo pronti a portarci a Est dell’arcipelago. Per evitare un viaggio a ritroso e controvento ci era stato proposto di timbrare i passaporti a metà strada con la futura data di uscita. Tutto perfetto se non che a causa della tempesta il presidente Maduro ha decretato d’urgenza il divieto a chi è entrato a Los Roques di avere uno zarpe di uscita e il timbro sui passaporti. Fermi al pueblo insieme ai tunares, i pescherecci d’altura del tonno, restiamo in attesa di istruzioni di Aleandro il quale ha in mano i nostri passaporti.
Bonaire e Aruba sono isole che non accettano persone da Los Roques senza visto, causa vecchi dissapori come il risentimento che Roque non è più parte delle Antille Olandesi. Nel mentre riceviamo la mail dall’Harbour Village che da oggi si pagano 75 dollari a persona per entrare a Bonaire e che l’ormeggio lo trovano, ma solo se anticipiamo a 400 dollari: lasciamo perdere Bonarie!
3 luglio. Alle 10 ci muoviamo verso Dos Moquises. Il vento soffia forte a 25 30 nodi, ma dovrebbe calare. Usciamo seguendo isla longa e zigzagando tra i bassifondi con l’aiuto delle fotografie satellitari: il vento è forte e il mare agitato. Arriviamo davanti alle isole per scoprire le pozze di acqua dolce scavate nella sabbia, grande risorsa per gli amerindi del passato.
Scegliamo poi l’ancoraggio Cayo Carenero, una piccola laguna, ben circondata dalle mangrovie. 30 nodi fuori e 15 nodi dentro. Uccelli e pesci a non finire. A terra troviamo i soliti cani e gatti affamati e il pescatore Evaristo con sua moglie. Raccontano che vivono in 3 sull’isola, lui gestisce anche il solito ristorante. Nel mentre un fenicottero ci vola sulla testa e tra i vari relitti noto un catamarano francese costruito su due canoe in bambù.
A Est dell’isola mi sono imbattuto in tre tombe e una tomba più grande abbastanza recente. Al Roque non si usa il cimitero, ci sono tre alternative: farsi cremare, essere sepolti in mare o sulla spiaggia. Il cimitero è infatti fermo al 1870 con le tombe degli olandesi.
4 luglio. Ultima notte al Roque. Ci spostiamo di buonora da Cayo Carenero a Sarqui di fronte alla spiaggia. Cayo Carenero si è rilevato un bel posto protetto dal vento che non molla. Dopo un paio d’ore arriva una barca a vela e passa un catamarano, le prime barche dopo 15 giorni!
A terra una lingua di sabbia nasconde due lagune e la sera ci regala uno stormo di fenicotteri in volo. Decido di percorrere a piedi nudi la radura, sfidando spine e zanzare per vederli riposarsi nella laguna. Arriva la buona notizia dei timbri sul passaporto e dello zarpe, dobbiamo uscire da questo paradiso e tornare alla civiltà. Ci manca internet? No, ma ci manca un po’ il vedere gente. Con un colpo di arbalete la cernia è servita.
5 luglio. Los Aves è un posto unico con mangrovie di 12 metri e tre ancoraggi comodi con bel tempo. Partiamo da Los Roques con un Aliseo moscio sui 12-15 nodi e molta onda, l’attrezzatura soffre e procediamo nelle ultime miglia con l’aiuto del motore. Arriviamo con il sole alle spalle e le sterne che volano vicinissime agli stralli.
Eseguiamo il solito serpente tra i reef per ancorare sui 5 metri e siamo nella giungla. Le mangrovie sono fitte e piene di uccelli bianchi. Mettiamo in acqua il gommone e esploriamo, notando subito molti uccelli mimetizzati, sterne, sule dal becco blu o dalle zampe rosse, e schivando qualche reef arriviamo alla fine dell’isola dove scopriamo uno sbarco tra le mangrovie. Un sentiero ci porta a un insieme di rocce e tronchi che sembrano un monumento innalzato da chi ha visitato l’isola. Decidiamo che sia anche il nostro momento e troviamo un pezzo di legno che incideremo in barca.
Percepisco l’essenza della navigazione, dell’esplorazione, intesa come fu per Slocum, Moitessier e i primi navigatori pionieri. La notte passa serena, con occhio e orecchio attento.
6 luglio. Con una navigazione spinta di 2 ore raggiungiamo Aves de Sotavento e veniamo chiamati dai guardiacosta i quali ci chiedono le nostre intenzioni. Ora in queste isole non si potrebbe transitare e fermarsi senza il permesso che viene rilasciato dall’isola Margherita.
Gli ufficiali sono zelanti: nome, rotta, passeggeri, intenzioni, matricole, etc. Ci dicono di dare ancora di fronte alla base per l’ispezione, peccato che ci sia un mare con un’onda incrociata di un metro e si balla non poco. Aspettiamo e pranziamo, alle ore 14 chiamo, nessuna risposta. Riprovo dopo la siesta e alle 14,30 mi dicono prima di scendere, poi no perché hanno i dati e mi autorizzano ad andare in un ancoraggio migliore, distante 3 miglia a Nord.
A terra “nessuna risorsa”, la spiaggia ha la sabbia come borotalco, diversi gabbiani ci molestano o siamo noi a invadere il loro habitat. Un paio di lance di pescatori e nient’altro. Pronti per Bonaire.
Articolo pubblicato e redatto. da Davide Zerbinati e pubblicato sul sito Bolina